Rappresentare le emozioni

La storia che vi racconto oggi riguarda una “sottocorrente scientifica, ma non scienza vera e propria”. Si tratta di una strana commistione tra il linguaggio della matematica, della fisica, dell’economia, della statistica e una versione social dell’antica pratica dei mantra. Ma procediamo con ordine. 🧘‍♀️

I grafici, in generale, servono a rappresentare dei dati; negli ultimi anni c’è stata una vera e propria esplosione sia nella quantità di dati di cui disponiamo (i famosi, o famigerati?, Big Data), sia nello studio e nell’impiego della cosiddetta data visualization: la disciplina che si occupa di comunicare dei contenuti proprio grazie alla rappresentazione grafica di dati. 📊

Queste rappresentazioni, di solito, si occupano di dati quantitativi (misure numeriche come 25km, 3kg, 200$ ecc.), ma possono anche, con qualche difficoltà in più, lavorare con categorie: variabili qualitative come relazioni, nomi, tipi e così via. Che cosa succede quando la difficoltà viene ulteriormente complicata dal fatto che queste variabili sono forse tra le più sfuggenti di tutte, ossia le emozioni umane? ❣️

Questa è la domanda che mi sono posta quando ho iniziato a leggere questo articolo in cui sono incappata per caso, dove l’autrice Margaret Rhodes esplora un fenomeno che, non ancora diffusosi tra gli instagrammers italiani, imperversa negli Stati Uniti da diversi mesi, probabilmente accentuato dalla pandemia di Covid-19. 🇺🇸

Si tratta di account i cui proprietari, spesso designer di professione, cercano di rappresentare graficamente le proprie emozioni con il linguaggio della data visualization – in particolare, con l’uso di gradienti, diagrammi di Venn, istogrammi, grafici a torta, grafici di dispersione… Sembra di scorrere il feed di un istituto di statistica, le cui immagini soffuse e dalla sconcertante tavolozza di colori pastello sono accompagnate da frasi tratte da un libro di self help (“Tratta te stesso come tratteresti un bambino”, “L’arte di attraversare le difficoltà”). 💭

Personalmente, non ho trovato una vera e propria risposta – ma forse, parlando di mantra, non è la risposta la cosa importante, ma il percorso di riflessione verso cui ci spinge la domanda. E questo, almeno per quanto mi riguarda, è stato piuttosto interessante. 👌

SapEvatelo
👉In questo percorso, mi ha colpito particolarmente l’osservazione di Rhodes dell’instaurarsi di un paradosso: Instagram non fa mistero del fatto che il proprio algoritmo favorisce chi usa il social network come un lavoro a tempo pieno – quindi le aziende, grandi o piccole che siano. La percezione del pubblico, pertanto, lo porta a trattare come un brand anche questi designer che, al contrario, usano la piattaforma a scopo terapeutico, quasi come un diario personale in cui mettono a nudo se stessi e, di conseguenza, ne risultano spiazzati e spesso anche affranti.