Sembrare un madrelingua… oppure anche no?

La mia prima insegnante di inglese, incontrata alle scuole medie, credo non avesse mai messo piede in vita sua in una nazione anglofona. Sicuramente, quando leggeva dal libro di testo, poteva sembrare un madrelingua… piemontese. Ricordo il suo How do you do? (pronunciato con forte inflessione cuneese) con rabbia mista ad affetto. Poi, però, alla fine ha prevalso la rabbia, mia e dei miei genitori, che alla prima occasione mi hanno spedito in Inghilterra per, sostanzialmente, ricominciare da capo. Dopo tutto – e questo è vero oggi come lo era negli anni Novanta, e probabilmente resterà vero anche in un futuro fantascientifico in cui saremo tutti dotati di un traduttore universale à la Star Trek o di un pesce di Babele à la Guida galattica per autostoppistiper imparare una lingua straniera niente di meglio che andare in loco, là dove la lingua è parlata, scritta e usata continuamente dalla maggioranza della popolazione.

Obiettivo: sembrare un madrelingua

Nel corso degli anni, dopo essermi sentita in più occasioni rivolgere frasi tipo “quando ti ascolto, mi sembra di sentir parlare Jane Austen”, mi sono concentrata su una “contemporarizzazione” del vocabolario e della sintassi, aiutata soprattutto da film e riviste (stiamo parlando di anni in cui internet così come lo conosciamo oggi era ancora in là da venire, anche se le serie tv erano già fra noi) e da un certo numero di quaderni per gli appunti (giuro!) che rileggevo diligentemente nei momenti più impensati. Volevo sembrare un madrelingua. Volevo suonare come un madrelingua. Per me, allora e per lungo tempo ancora, questa è stata la cosa più importante, l’obiettivo da perseguire per quanto riguardava lo studio dell’inglese prima, e delle altre lingue poi.

Non so se ci sono davvero mai riuscita, a sembrare un madrelingua; probabilmente in certi momenti sì – per un certo periodo ho frequentato abitualmente molti anglofoni e trascorrevo spesso periodi, anche lunghi, in Inghilterra. Il fatto è che poi, a un certo punto, mi sono accorta che forse sembrare un madrelingua non era la cosa più importante nel conoscere una lingua straniera, inglese o francese o spagnolo che fosse [in realtà ho studiato un paio d’anni anche il tedesco, ma non sono mai arrivata a un livello tale da pormi il problema]. Era un mito che io, come credo migliaia di altri italiani, mi ero costruita per contrastare l’accento piemontese della mia professoressa delle medie; per differenziarmi da una generazione, quella dei miei genitori, che era già tanto se aveva studiato un po’ di francese e, ai miei occhi di adolescente e di ventuno, ventiduenne, sembrava irrimediabilmente condannata al provincialismo.

All’epoca non sapevo ancora che quella mia fame di imparare le lingue straniere mi avrebbe aiutato a costruirmi un lavoro, quello di traduttrice: semplicemente, volevo poter comunicare con quanta più gente possibile, leggere quanti più libri possibile, guardare quanti più film possibile. Retrospettivamente, meglio così – non so se, diversamente, mi sarei lanciata nell’impresa del plurilinguismo con altrettanto entusiasmo!

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L’inglese, una lingua franca

Negli ultimi vent’anni, è addirittura nata una disciplina di ricerca che sfata il mito del “suonare come un madrelingua” e, per inciso, contribuisce a demolire anche quello che, per essere buoni insegnanti di lingua, sia necessario – o quantomeno fortemente consigliato – che si tratti della nostra lingua materna. Si tratta dello studio dell’inglese come lingua franca (ELF, English as a Lingua Franca – concetto introdotto nel 2000 dalla linguista Jennifer Jenkins), da cui emerge come l’inglese sia diventato un analogo di quello che nel medioevo era il latino: la lingua di riferimento per comunicare in un contesto internazionale (ne ho scritto anche qui, concentrandomi più sul suo ruolo nella comunità scientifica e su come abbia soltanto di recente preso il posto di altre lingue). Si parla anche di Global Englishes – e, come potete immaginare, la scelta del plurale (Inglesi globali) non è affatto dettata dal caso.

Banalizzando, l’inglese ormai non serve più soltanto per ordinare un fish and chips a Manchester o un hamburger a Seattle: lo usiamo per fare acquisti a Santorini o per affittare un risciò che ci porti a visitare i templi di Angkor Wat. E il giovane greco o il giovane cambogiano non soltanto non si scompongono, ma di solito ci rispondono a tono, con un inglese non necessariamente sgrammaticato (anzi), ma che sicuramente ricorda ben poco le sonorità a cui ci ha abituato, per dire, sir David Attenborough nei suoi meravigliosi documentari per la BBC [dopotutto, qui si parla di scienza, e gli esempi vanno scelti ad hoc].

Se volete avere un riscontro immediato su questa diversità di accenti, niente di meglio di un giro su IDEA: un sito internet dove è possibile ascoltare registrazioni di parlanti inglese (madrelingua o no) letteralmente di tutto il mondo (sono coperte 170 nazioni). L’acronimo sta per International Dialects of English Archive, e navigando qua e là anche soltanto per qualche minuto si ha veramente l’idea [lo sapevo, mi è scappato!] della pressoché infinita variabilità con cui una stessa lingua può essere pronunciata.

Secondo questo articolo del British Council, attualmente l’inglese ha uno status speciale in almeno 75 Paesi, per una popolazione pari a due miliardi di persone. Circa il 25 % della popolazione mondiale parla inglese, più o meno bene, e il numero di studenti cresce ogni giorno, anche per la voglia di appropriarsi di tutta quell’informazione ormai disponibile gratuitamente in formato elettronico, l’80 % della quale è scritta – indovinate un po’ – proprio in lingua inglese.

Per tutti questi motivi gli insegnanti di inglese, oggi, devono confrontarsi con studenti – soprattutto quelli che imparano o si perfezionano da adulti – che useranno la lingua principalmente per comunicare con interlocutori non anglofoni. Come si nota dal fiorire di libri per l’apprendimento dell’inglese scritti proprio nell’ottica ELF, gli insegnanti devono tenerne conto, perché i bisogni sono molto diversi rispetto a quelli di studenti che, mettiamo, frequentano un corso di lingue in Australia con l’obiettivo di trasferirsi a vivere lì. E’ possibile che prima o poi questi ultimi sentiranno la mia stessa esigenza di adolescente che voleva sembrare un madrelingua, anche se non è detto. Forse, come è successo a molti expat che conosco, decideranno che il loro accento è parte della loro identità linguistica, personale, sociale e culturale, e continueranno a pronunciare orgogliosamente la “r” in quel modo tutto italiano… Anche perché, diciamo la verità, molti anglofoni per nascita, impossibilitati o quasi a farlo, quella “r” arrotata in realtà ce la invidiano a morte.

L’immagine di copertina è di Ptwo su Flickr.

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