Di che colore è una banana?

La percezione dei colori la dice lunga sulle straordinarie capacità del nostro sistema visivo, come scoprì Matisse un secolo fa e come oggi sanno anche i bambini.

Che domanda stupida: una banana è gialla, lo sanno anche i bambini! Nel corso della sua breve esistenza, tuttavia, una banana è gialla soltanto per una piccola parte del tempo, un giorno o al massimo due: inizialmente è verde, quando è ancora acerba, poi è vero che durante la maturazione diventa sempre più gialla ma, ben presto, il giallo comincia a tendere verso il marroncino, e il frutto si cosparge progressivamente di puntini che indicano un eccessivo grado di maturazione. A quel punto, se ancora non ce ne siamo liberati mangiandola oppure gettandola via, la banana tende a diventare sempre più scura, finché il marrone diventa quasi nero e la buccia comincia ad avvizzire.

Eppure, quando pensiamo a una banana, l’immagine che si presenta agli occhi della nostra mente è inequivocabilmente tinta di giallo: questa è la nostra percezione del colore del frutto, questo – ossia il giallo (e non il verde, e neppure il marroncino puntinato) – è il colore che proiettiamo su tutti gli “oggetti-banana” che fanno parte della nostra realtà.

Ciò succede perché il colore non è semplicemente la luce che colpisce i nostri occhi, quanto il risultato di un insieme di esperienze.

La percezione dei colori è considerata un esempio di ciò che i filosofi amano chiamare qualia della mente. Se siete interessati a capire cosa sono i qualia e, più in generale, a una disamina filosofico-psicologica della questione della percezione (cromatica, ma non soltanto), consiglio spassionatamente questo libro di Giorgio Vallortigara oppure, che ancora di più entra nello specifico, Rosso di Nicholas Humphrey, che fu per me una grande fatica da tradurre ma offre tutt’ora un ottimo bilanciamento fra curiosità destate e poi appagate.

Dal punto di vista fisico, il processo della percezione dei colori è legato alla lunghezza d’onda della luce riflessa dall’oggetto in questione e alla meravigliosa complessità del sistema visivo umano (di cui scriverò sicuramente in futuro, anche se mai così bene come Simon Ings nella sua Storia naturale dell’occhio). Immaginiamo di avere di fronte a noi una banana – che avrà un certo colore, non necessariamente giallo, ma preferibilmente sì perché così è più buona.

percezione dei colori - scimmia

Lo spettro della luce riflessa dalla banana non dipende soltanto dallo stadio di maturazione in cui si trova, ma può anche variare enormemente in funzione della luce utilizzata per illuminarla; eppure, la nostra percezione del colore del frutto, almeno in un intervallo di tempo abbastanza breve da non influire sulla sua maturazione, non varia. Si tratta della cosiddetta  costanza dei colori, proprietà brillantemente contraddetta dai versi di John Ruskin:

Ogni luce diventa come un’ombra
se guardi una luce più grande,
finché non giungi al sole.
Ogni ombra è come una luce
rispetto a ombre più profonde,
finché non giungi alla notte.

Osservate ora con attenzione l’immagine che segue, concentrandovi sul cilindro verde e sui quadrati contrassegnati con A e B:

adelson_originale

In questa cosiddetta illusione ottica creata dal professor Edward H. Adelson, nonostante le apparenze i due quadrati A e B sono esattamente dello stesso colore. Sì, lo giuro. Se non ci credete, usate un color picker (uno strumento di prelievo colore presente in programmi come Gimp o Photoshop) oppure cliccate qui e, se vi restano ancora dei dubbi, schermate con la mano il cilindro verde.

L’immagine di Adelson confonde il nostro sistema visivo perché ci aspettiamo che il cilindro verde proietti un’ombra sulla scacchiera su cui è appoggiato. Il nostro cervello deve determinare fin dove è ragionevole che l’ombra si estenda per poi valutare l’intensità del grigio che colora la superficie. Innanzitutto, il cervello sa che un quadrato più chiaro dei propri vicini è probabilmente anche più chiaro della media, e viceversa; nella figura, il quadrato B (in ombra) è circondato da vicini più scuri ed è quindi percepito come chiaro proprio grazie a questo confronto. I quadrati scuri che si trovano fuori dal cono d’ombra, al contrario (come è il caso del quadrato A), sono circondati da quadrati più chiari e, sempre per paragone, sono percepiti come quadrati più scuri in assoluto. A ciò si aggiunge il contrasto fra i contorni sfumati del cono d’ombra del cilindro e quelli netti dei quadrati: il sistema visivo tende a ignorare i cambiamenti graduali nei livelli di luminosità, perché così diventa più facile determinare i colori delle superfici senza lasciarsi fuorviare delle ombre. In questo caso, tale tendenza contribuisce a farci sembrare il quadrato A molto meno luminoso del quadrato B.

A mio avviso, l’immagine dimostra le straordinarie capacità del nostro sistema visivo molto più di quanto non ne evidenzi i limiti: esso non sarà molto bravo a misurare con precisione la proprietà fisica della luminosità, d’accordo, ma non è questo il suo scopo. Il compito che il nostro sistema visivo deve assolvere, piuttosto, consiste nello scomporre le immagini che gli si presentano in componenti dotate di significato, in modo da renderci in grado di percepire il mondo circostante.

percezione dei colori - complessità

Il colore dello sfondo esercita sempre un ruolo fondamentale sulla nostra percezione dei colori di ciò che è posto in primo piano; il nostro cervello elabora questo tipo di informazioni senza alcuno sforzo e, soprattutto, senza che noi ce ne accorgiamo – tanto che, come abbiamo visto, nel momento in cui cerchiamo di sfuggire a questo meccanismo automatico diventa necessario operare uno sforzo cognitivo.

Come ultimo esempio, vorrei far notare una particolarità di alcuni quadri del pittore francese Henri Matisse.

In molte sue opere, Matisse ha tralasciato di dipingere alcune piccole aree, che lasciano così emergere il bianco della tela sottostante. Questi “intervalli” tra un colore e l’altro, una volta visti nel contesto del quadro completato, non soltanto non danno assolutamente l’impressione di incompiutezza, ma sono funzionali al godimento dell’opera stessa, perché attenuano la confusione che, come abbiamo visto, può insorgere a causa degli scherzi giocati al nostro sistema visivo dalla luce e dai colori.

Chissà, è possibile che Matisse abbia intenzionalmente adottato tale metodo proprio dopo aver scoperto che questo era l’unico modo perché, una volta terminata l’opera, gli osservatori potessero avere un’esperienza cromatica il più possibile simile a quella vissuta dal pittore nell’atto di crearla, oggetto dopo oggetto, pigmento dopo pigmento, pennellata dopo pennellata.