Forse, per lasciare veramente un segno, un po’ di sfrontatezza è necessaria. Nonostante io sia un’introversa “da manuale”, se il manuale di cui si parla è lo splendido Quiet di Susan Cain, devo riconoscere che la sicurezza di sé e l’assenza di paura nello sfidare una presunta auctoritas possono essere fattori dirimenti per l’avanzamento della conoscenza umana. Ma il prezzo da pagare per l’uscita dalla condizione in cui si è più a proprio agio può essere anche molto alto.
Una storia che esemplifica in modo eccellente questa sorta di patto con il diavolo è quella dell’astrofisico Fritz Zwicky.
Nato nel 1898 in Bulgaria, da ragazzo fu spedito dal padre in Svizzera per completare i propri studi; frequentò lo stesso Politecnico federale di Zurigo che diede i “natali accademici” a oltre venti premi Nobel, il più famoso dei quali è probabilmente (l’onnipresente) Albert Einstein. Dalla capitale elvetica, Zwicky si trasferì poi al Caltech, in California, dove visse fino alla morte, sopraggiunta nel 1974, senza mai rinunciare alla propria cittadinanza svizzera.
Sebbene mi vanti di essere un’appassionata di scienza e di storia dell’astronomia, confesso che anche a me, come ai più, la figura di Zwicky fino a poco tempo fa non era particolarmente nota. Il suo nome non faceva trillare nessun campanello, come succedeva invece, poniamo il caso, con nomi come Henrietta Leavitt o Edwin Hubble. Male, anzi malissimo! Fritz Zwicky, infatti, è stato il protagonista di alcune fra le scoperte più sconvolgenti del XX secolo in ambito astronomico (e non soltanto): le supernove, le stelle di neutroni, le lenti gravitazionali e addirittura la materia oscura.